
Andate su Google e guardate le sue magnifiche follie, i suoi cartelli stradali che trasfigurano mirabilmente il senso mai unico delle cose umane.
L’ha fatto così, e a noi è piaciuto.
Non avevamo mai incontrato Clet prima di quella telefonata. Gli abbiamo parlato del nostro sogno: organizzare una festa in cui l’Alzheimer e le altre forme di demenza non fossero soltanto l’incubo quotidiano di milioni di persone. Perché la malattia non toglie di mezzo la vita.
E non ci piaceva l’idea di un simbolo stilizzato, corretto, astratto. Clet Abraham ha detto: “Non vi assicuro niente. Ma se mi viene in mente qualcosa, ve la regalo”.
Un giorno ha chiamato. Aveva disegnato una faccia, con un buffo cappello, grandi occhi e grandi frecce al posto delle orecchie: le persone con demenza sono parte della società, non è vero? Ecco: anche loro ascoltano, osservano, si fanno vedere. Come tutti, non vogliono chiudersi, ma aprirsi. E ridere, anche: Clet ha stampato su quel volto un sorriso che può apparire un ghigno beffardo e canzonatorio, una smorfia rivolta alla sorte, alla malattia, a tutti coloro che per volontà o per distrazione continuano a vedere le persone con demenza come non (più) persone.
Ah, dimenticavamo: Clet si è volutamente dimenticato di mettere l’H nella parola Alzheimer. Idea di artista. Può piacere o non piacere, ma in ogni caso non vuole essere uno sberleffo alla scienza o una mancanza di rispetto nei confronti di chi affronta una demenza. Con l’Alzheimer non si scherza. Oppure sì?
Mister Alzy, così lo chiamavamo all’inizio: un po’ come Ötzi, l’uomo dei ghiacci, la mummia del Similaun. Ora, per fortuna, il ghiaccio dei luoghi comuni si va sciogliendo sul conto e sul corpo delle persone con l’Alzheimer. Ma c’è ancora bisogno di tanto calore, tanta festa. Non siamo mummie. E come Steve McQueen legato alla zattera, finalmente libero al termine del film Papillon, anche noi gridiamo: “Siamo vivi, siamo ancora vivi”.